
Norme sulla concorrenza e sull’assicurazione obbligatoria INAIL: il caso degli studi professionali associati
Due recenti ordinanze della Suprema Corte offrono lo spunto per riflettere su alcune peculiarità delle associazioni professionali, e delle regole ad esse (non) applicabili.
L’associazione professionale è una figura particolare. Infatti, da un lato, ingloba in sé i caratteri dell’esercizio di una professione, e quindi, sol per citarne alcuni, l’intuitus personae, inteso come lo svolgimento dell’incarico da parte di un professionista “persona fisica”, voluto dal cliente. Ancora, la specifica applicabilità delle norme in materia di professioni intellettuali, come l’art. 2232 c.c. (“Esecuzione dell’opera”) secondo cui il professionista deve eseguire personalmente l’incarico assunto, ma può avvalersi della collaborazione di altri soggetti se ciò è compatibile con l’oggetto della prestazione, e purché essi siano sotto la sua direzione e responsabilità. Od ancora, l’obbligo assicurativo per la responsabilità professionale, che è estesa all’associazione professionale nel suo complesso.
Dall’altro lato, essa è connotata da caratteri tipici di una forma imprenditoriale, quali la suddivisione annuale dei risultati economici (con classificazione ed elencazione degli utili di periodo o delle perdite), nell’ottica della produzione di un utile e della sua ripartizione tra i professionisti che la compongono, nonché la riconduzione di determinate voci economiche all’associazione, ad esempio quelle riferite ai beni strumentali e loro deducibilità d’imposta.
Ma in alcuni casi il regime normativo dell’associazione professionale appare di non immediata individuazione.
Ad
esempio, è lecito chiedersi: si applicano le norme – generalmente previste per
le forme imprenditoriali – in materia di concorrenza sleale per il caso di
fuoriuscita dallo studio associato?
E
ancora: lo studio associato soggiace agli obblighi assicurativi per gli
infortuni sul lavoro?
Di seguito cerchiamo di rispondere ad entrambi i quesiti.
1. Si applicano all’associazione professionale le norme sulla concorrenza sleale?
Anzitutto,
e da un punto di vista del tutto teorico: il patto associativo senz’altro potrebbe
anche prevedere delle clausole di “non concorrenza” estese al divieto di non
appropriarsi – per così dire – dei clienti dello studio laddove l’associato
dovesse recedere.
Tanto premesso, precisiamo subito che la Corte di Cassazione tende ad escludere che il professionista intellettuale possa definirsi “imprenditore”, e dunque che gli si possano applicare le norme in materia di concorrenza sleale, quali l’art. 2598 c.c.[1].
Tale indirizzo giurisprudenziale ha trovato recente conferma nell’ordinanza n. 6127 del 7.3.2024 della Prima Sezione della Cassazione: rigettando il ricorso, essa ha confermato la sentenza che (anche in primo grado: dunque si trattava di una c.d. “doppia conforme”) “condiviso l’indirizzo di legittimità, già invocato dal tribunale”, ha ritenuto che “l’illecito concorrenziale disegnato dalla norma di cui all’art. 2598 cod. civ. presuppone un rapporto di concorrenza fra due (o più) imprenditori, sicché la legittimazione attiva e passiva all’azione presuppone il possesso della qualità di imprenditore o almeno l’esercizio di un’attività di impresa”.
Se questo è il dictum giurisprudenziale, è pur vero che vari interventi legislativi (si pensi al venir meno, con il D.L. 4.7.2006, n. 223, art. 2, del divieto di fornire servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di Società tra Professionisti; all’introduzione, con il D.Lgs. 2.2.2001, n. 96, art. 16, della “società tra avvocati”) hanno via via concorso ad una diversa opinione, tendente ad assimilare le realtà professionali ad un’organizzazione più specificamente imprenditoriale con perseguimento di finalità economiche. E si è assistito anche ad un’espansione del divieto di comportamenti sleali (si pensi all’evoluzione della normativa Antitrust; al quadro normativo comunitario, ove, in merito alla disciplina della concorrenza, la Corte di Giustizia[2] è univoca nel far riferimento a qualsiasi entità economica, a prescindere dalla sua forma giuridica e dal suo modo di finanziamento, dunque comprese le professioni intellettuali).
Vi è, quindi, una certa tendenza “estensiva”. E si rinviene pur della giurisprudenza di merito che ha riconosciuto l’applicabilità delle norme e delle tutele in materia di concorrenza sleale anche nell’ambito delle professioni intellettuali (associazione tra professionisti).
Ci
riferiamo a una sentenza del Tribunale di Milano, che, nel decidere su una
vicenda di fuoriuscita di due avvocati (non associati) e costituzione di un
nuovo studio, ed “accaparramento” di alcuni clienti seguiti precedentemente, ha
statuito che, per l'applicabilità in senso estensivo della disciplina della
concorrenza, ‘ciò che conta è che i
soggetti coinvolti svolgano un'attività obbiettivamente economica attraverso
una propria organizzazione, a prescindere dal fatto che essi possano dirsi o
meno rivestire la qualità di imprenditori’[3].
Va sottolineato che in ogni
caso è imprescindibile la sussistenza e la prova del requisito – oggettivo –
della “slealtà” della concorrenza, cioè un’attività diretta ad appropriarsi
illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela del
concorrente, mediante il compimento di atti non conformi alla correttezza
professionale: in questa direzione, l’onere probatorio è senz’altro
particolarmente rigoroso.
Di ciò si è mostrata avvertita
altra giurisprudenza, la quale ricorda ‘come
appartenga alla libera scelta ed autodeterminazione di ciascun cliente la
decisione di rivolgersi ad un determinato professionista piuttosto che ad un altro.
D'altronde, le decisioni e valutazioni che portano il cliente ad avvalersi dei
servizi professionali di una società o di uno Studio sono insindacabili e non
si possono, a ciò, porre limitazioni. La ricostruzione della fattispecie
illecita è dunque incentrata sulla presenza dell'animus nocendi e conferisce specifico rilievo agli effetti
pregiudizievoli per il soggetto passivo della concorrenza sleale, rendendoli oggetto specifico dell'intenzione dell'agente
e non solo conseguenze dell'atto di concorrenza’[4].
In definitiva, a tutt’oggi può affermarsi: che l’associazione professionale non è un’impresa; che le attività sono conferite dal cliente sulla base dell’intuitus personae, e pertanto - come ricorda, valorizzando la sentenza d’appello, la citata ordinanza n. 6127/2024 della Cassazione – ‘il cliente è libero, nel rispetto dell’eventuale vincolo contrattuale, di scegliere di seguire il professionista nel quale ripone maggior fiducia e stima. Non è concepibile una assimilazione di tali rapporti a quelli commerciali, ove la concorrenza si basa su prezzi e criteri qualitativi effettivamente comparabili. Né sono previsti divieti di concorrenza nei confronti dei professionisti che recedano da associazioni professionali, rimettendo l’ordinamento alla libera scelta degli associati la possibilità di prevedere simili clausole’.
Peraltro – con riferimento alla professione forense – l’utilizzo di mezzi costituiti da slealtà e scorrettezza per sottrarre clientela allo studio di cui l’avvocato faceva parte prima della sua fuoriuscita, sia essa struttura associativa o meno, può, in presenza di particolari presupposti ed anche con specifico riferimento alle norme deontologiche forensi, integrare illecito concorrenziale fonte di responsabilità civile per i danni arrecati.
2. Si applicano all’associazione professionale le norme in materia di obblighi assicurativi per infortuni sul lavoro e malattie professionali?
Sotto
altro profilo, un’altra recente ordinanza della Cassazione (Sez. Lavoro,
ord. n. 4473 del 20.2.2024) puntualizza nuovamente il regime applicabile
agli studi associati in materia di obblighi assicurativi per infortuni e
malattie professionali.
Riprendendo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato e recentemente ribadito (Cass. 15971/2017; 30428/2019; 33203/2021; 1777/2023), la S.C. ha respinto il ricorso proposto dall’INAIL contro la sentenza della Corte d’appello di Brescia che, confermando la sentenza di primo grado, aveva escluso la sussistenza in capo ai professionisti associati dello studio dell’obbligo assicurativo presso l’INAIL.
È
pur vero che alcune sentenze precedenti avevano configurato una diversa
possibilità, nel senso che, indipendentemente dalla natura giuridica del
rapporto in base al quale è prestata l’attività lavorativa, a parità di
esposizione a rischio dovrebbe corrispondere parità di tutela assicurativa (Cass.
12095/2006 e 13278/2007).
Tuttavia
questo indirizzo è stato del tutto superato, complice anche una pronuncia della
Corte Costituzionale del 2016[5], affermandosi
ormai una posizione ben diversa.
È
utile riprendere, per la sua chiarezza, il punto decisivo dell’ordinanza in
questione: ‘si è dunque consolidato il principio per cui, in tema di
assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali, non sussiste
l’obbligo assicurativo nei confronti dei componenti di studi professionali
associati, in quanto la tendenza ordinamentale espansiva di tale obbligo
può operare, sul piano soggettivo, solo nel rispetto e nell’ambito delle
norme vigenti, le quali in alcun luogo (DPR n. 1124 del 1965, artt. 1, 4 e
9) contemplano l’assoggettamento delle associazioni professionali all’obbligo
in questione (così come non lo contemplano per il mero libero professionista)’.
Conclusioni
Si
è qui voluto porre l’attenzione su due singoli, particolari, aspetti dell’associazione
professionale, un ente giuridico riconosciuto che riguarda milioni di professionisti
in Italia, e che configura determinati vantaggi per chi ne fa parte ed anche
per i clienti (accentramento e unitaria gestione di determinati aspetti del
lavoro professionale, ma uguale garanzia della presenza attiva di singoli
professionisti, soggetti a responsabilità individuale, anche deontologica,
verso il cliente e verso l’ordinamento professionale).
Maggio 2024
Giulio Calcinotto
[1] È un principio ormai risalente,
si veda ad esempio Cass. civ. 13.1.2005 n. 560: ‘La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha affermato che presupposto
della configurabilità di un atto di concorrenza sleale è la sussistenza di una
situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, e la conseguente
idoneità della condotta di uno dei concorrenti ad arrecare pregiudizio
all'altro, pur in assenza di un danno attuale (in tal senso Cass. n. 1259/99;
vedansi anche Cass. n. 5375/01 e n. 13071/03). [...] Non si nega che, sotto il
profilo meramente economico - o, se si vuole, ontologico - studi di liberi
professionisti siano, de facto (per
personale, mezzi tecnici impiegati e quant'altro), assimilabili ad aziende, ma
agli effetti in esame rileva non già tale profilo, sibbene l'intento del
legislatore, diretto a differenziare nettamente la libera professione
dall'attività di impresa’.
Anche il Consiglio di Stato tende a valorizzare l’eventuale distinta e assorbente attività in forma d’impresa se differenziata da quella professionale (Cons. di Stato, n. 258/2016).
[2] Sentenza CGCE, sent. 19.2.2002, causa C-309/99, ove si afferma che ‘gli avvocati svolgono attività economica’ e gli studi organizzati ‘costituiscono imprese ai sensi degli artt. 85, 86 e 90 del Trattato, senza che la natura complessa e tecnica dei servizi da loro forniti e la circostanza che l'esercizio della loro professione è regolamentato siano tali da modificare questa conclusione’.
[3] Trib. Milano, Sez. spec. Impresa, 6.6.2017, n. 6359: premesso che ‘la Corte [di Cassazione] si è limitata a ribadire il proprio risalente orientamento, per ribadire, in definitiva, che il professionista intellettuale non è imprenditore’, ‘se si guarda alla ratio della disciplina di cui agli artt. 2598-2961 c.c., non pare sussistere alcun argomento idoneo ad impedire un'interpretazione estensiva della stessa all'attività dei liberi professionisti, indipendentemente dalla dimensione dei mezzi impiegati, e, quindi, dalla possibilità di ravvisare nell'agire del professionista i requisiti dell'attività dell'imprenditore, come colui che ex art. 2082 organizza i mezzi per la produzione o lo scambio di beni o di servizi ( e quindi indipendentemente da quanto già prevede l'art. 2238 c.c.). [...] Proprio la ratio della disciplina della concorrenza sleale, quale strumento di presidio del libero mercato, nella prospettiva costituzionalmente orientata della tutela della libertà d'iniziativa economica in quanto tutela anche dell'interesse della collettività, e, quindi, del benessere dell'utente/consumatore, pare consentire di valorizzare - in funzione di un'interpretazione estensiva dell'istituto - l'elemento che accomuna i due ambiti dell'attività d'impresa e dell'esercizio della libera professione, ovvero il fatto che, tanto l'impresa, quanto lo studio professionale, sono realtà economiche ove si svolgono attività preordinate all'acquisizione ed alla conservazione di una stabile clientela, dunque di una "quota di mercato"; acquisizione e conservazione su cui certamente può incidere un atto di concorrenza sleale, senza che la dimensione dei mezzi preordinati al fine economico perseguito abbia alcuna rilevanza’.
[4] Trib. Ancona, sez. II, 27.1.2021,
n. 124. La sentenza aggiunge poi: ‘‘E' il caso inoltre di puntualizzare che la concorrenza sleale per "illecito
sviamento di clientela" è un concetto estremamente vago e non tipizzato,
e pertanto non assimilabile ad altre figure sintomatiche di concorrenza sleale
scorretta elaborate in modo tradizionalmente consolidato dalla giurisprudenza
(storno di dipendenti, violazione di norme pubblicistiche, boicottaggio,
vendita sottocosto...). Il tentativo di sviare la clientela (che non
"appartiene" all'imprenditore) di per sé rientra nel gioco della
concorrenza (che altro non è che contesa della clientela) sicché per apprezzare
nel caso concreto i requisiti della fattispecie di cui all'articolo 2598, n.3,
e ritenere illecito lo sviamento, occorre che esso sia provocato, direttamente
o indirettamente, con un mezzo non conforme ai principi della correttezza
professionale (intesa come il complesso di regole desunte dalla coscienza
collettiva imprenditoriale di una certa epoca, socialmente condivise dalla
categoria). Non è quindi sufficiente il
tentativo di accaparrarsi la clientela del concorrente sul mercato nelle sue
componenti oggettive e soggettive, ma è imprescindibile il ricorso ad un mezzo
illecito secondo lo statuto deontologico degli imprenditori’.
[5] Ordinanza C. Cost. n. 25 del
12.1.2016, che ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, n. 7 del DPR n. 1124/195,
nella parte in cui non estende anche agli associati degli studi professionali –
legati da un vincolo di dipendenza funzionale – quell’assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali.