
La circolazione mortis causa delle partecipazioni nelle società di capitali
Partiamo dal presupposto che, in
ambito societario, principio di carattere generale è la libera circolazione
delle partecipazioni e pertanto la libera trasferibilità delle stesse, sia inter
vivos che mortis causa; da tale assunto si ricava che, in caso di
morte di un socio di una s.p.a. o di una s.r.l., ed in assenza di clausole statutarie
limitative della circolazione, l’erede con l’accettazione dell’eredità, o il
legatario, diviene automaticamente socio una volta espletati gli obblighi di
legge.
La situazione è molto diversa nel
caso di una società di persone: in quanto il contratto sociale si fonda sul cd.
intuitu personae, il trasferimento delle partecipazioni non può avvenire
liberamente, ma necessariamente con il consenso degli altri soci. La ratio
di tale diversa disciplina trova la sua ragion d’essere nella natura stessa
delle società: se nelle società di capitali la responsabilità del socio è
limitata al patrimonio che lo stesso ha conferito in società, nelle società di
persone, al contrario, la responsabilità del socio è illimitata.
Inevitabilmente egli risponde con tutto il suo patrimonio dei debiti sociali
inadempiuti, e il trasferimento, anche mortis
causa, della partecipazione in una s.n.c. o in una s.a.s. (qui risponde
illimitatamente solo il socio accomandatario) assume rilevanza proprio in
relazione ai diritti e doveri inerenti alla partecipazione stessa.
Tornando invece al regime delle
s.p.a., è opportuno precisare che il nostro sistema normativo permette, in ogni
caso, di derogare alla libera trasferibilità delle azioni o quote di s.r.l. ricorrendo
all’introduzione nello statuto di clausole limitative. Ed è proprio in tale
prospettiva che è intervenuto il nostro legislatore al fine di adattare
l’ordinamento giuridico a tale “nuova” esigenza (nuova perché la previgente
disciplina riteneva che la clausola statutaria disponente la facoltà per i soci
superstiti di una società di capitali di accettare o meno l’ingresso dell’erede
del de cuius fosse da considerarsi illegittima, salvo che per i legati;
il carattere illegittimo si desumeva dal tenore letterale del precedente art.
2355 c.c., così in Trib. Verona 21.7.1995).
Con l’entrata in vigore del
d.lgs. 6/2003, le clausole limitative della circolazione azionaria sono divenute
compatibili con tutte le forme di successione per causa di morte, a titolo
universale o particolare.
Così, nel tentativo di placare il
dibattito dottrinale emerso negli ultimi anni, è stato modificato l’art. 2355
bis c.c. in materia di s.p.a., nonchè l’art. 2469 c.c. relativo alle s.r.l., attribuendo
ampio respiro all’autonomia negoziale delle parti quanto alla gestione delle
partecipazioni in caso di morte del socio.
Ecco quanto previsto dall’attuale
articolo 2355 bis comma 2 e 3, c.c.,
in tema di società per azioni:
Comma 2: Le clausole dello
statuto che subordinano il trasferimento delle azioni al mero gradimento di
organi sociali o di altri soci sono inefficaci se non prevedono, a carico della
società o degli altri soci, un obbligo di acquisto oppure il diritto di recesso
dell'alienante; resta ferma l'applicazione dell'articolo 2357. Il corrispettivo
dell'acquisto o rispettivamente la quota di liquidazione sono determinati
secondo le modalità e nella misura previste dall'articolo 2437-ter.
Comma 3: La disposizione del
precedente comma si applica in ogni ipotesi di clausole che sottopongono a
particolari condizioni il trasferimento a causa di morte delle azioni, salvo
che sia previsto il gradimento e questo sia concesso.
Quindi, per espressa previsione
legislativa, è ora possibile e legittimo subordinare, con apposita clausola
statutaria, l’efficacia del trasferimento delle azioni per causa di morte alla
manifestazione di un placet da parte degli altri soci, i quali
dispongono di un potere discrezionale di dare o meno detto consenso senza che
vengano prescritte ulteriori condizioni soggettive od oggettive, alle quali
subordinare l’esercizio di un tale potere di diniego.
Affinché tale clausola di
gradimento possa considerarsi valida ed efficace, deve essere riconosciuto
all’erede il diritto alla liquidazione del controvalore della quota che gli è
pervenuta in eredità (si precisa che la somma da liquidare deve essere
comprensiva dei conferimenti iniziali, dei versamenti in conto capitale, e
della cd. “riserva di capitale”, ex art. 2437 – ter c.c.).
Possiamo quindi dire che, alla morte del socio di una s.p.a. nel cui statuto sia presente la clausola limitativa ex art. 2355 bis c.c., l’erede potrà percorrere due strade alternative:
a) ottenere il consenso dei soci superstiti e pertanto acquisire la qualifica di socio in luogo del defunto con conseguente iscrizione nel libro soci;
b) non ottenere il consenso dai soci superstiti e quindi:
b1) acquisire il diritto alla liquidazione del valore della partecipazione;
b2) esercitare il diritto di recesso.
E tale diritto di recesso trova
il suo fondamento non nella clausola di gradimento in sé, quanto più nell’uso
negativo che viene fatto del consenso da parte di chi ha il potere di
esprimerlo o meno.
A tale proposito occorre fare una
precisazione: in caso di recesso del socio di una s.p.a., l’art. 2437 ter c.c.,
riconosce a costui “il diritto alla liquidazione delle azioni per le quali
esercita il recesso”. Pertanto, tornando al passo precedente circa le
alternative che si presentano all’erede che non abbia ottenuto il gradimento, si potrebbe sostenere che, indipendentemente
dal fatto che l’erede eserciti il diritto di recesso o ottenga la liquidazione
della quota, in entrambi i casi egli beneficerà del controvalore monetario
della quota caduta in eredità; pertanto, benchè astrattamente e giuridicamente
le due opzioni non coincidano tra loro, non sembrano divergere sul piano degli
effetti che si produrranno in capo all’erede. A sostegno di ciò, si consideri
che nell’ipotesi di cui al sub. b.1) il valore della quota viene calcolato
sulla base dei criteri di cui all’art. 2437 ter c.c.
Quanto sinora detto in materia di s.p.a. può dirsi anche per
le s.r.l., ma con alcune precisazioni.
La norma che regola l’istituto
del trasferimento mortis causa delle partecipazioni nell’ambito delle
s.r.l. è l’art. 2469 c.c. che al comma 2 così dispone: “Qualora l’atto costitutivo preveda
l’intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al
gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni e
limiti, o ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il
trasferimento a causa di morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare il
diritto di recesso ai sensi dell’articolo 2473”.
La ratio della norma è dunque quella di compensare il
successore mortis causa dell’impossibilità
di diventare socio per effetto del mancato gradimento.
Quindi, anche nelle s.r.l. come nelle s.p.a., può esservi la
clausola di gradimento tale per cui l’ingresso dell’erede o degli eredi è
subordinato al gradimento degli altri soci, anche se con un elemento di
contrasto rispetto alla disciplina valevole per le s.p.a.: a norma di quanto
prescritto dall’art. 2469 c.c., in caso di mancato consenso dei soci
superstiti, ciò implica necessariamente il diritto di recesso del socio ai
sensi dell’art. 2437 c.c., e comunque non, come nelle s.p.a., la scelta
alternativa di ottenere la liquidazione della quota. Tuttavia, come già detto, il
beneficio concreto per il socio receduto/liquidato è equivalente.
Concludendo, l’obbiettivo della normativa è quello di
contemperare gli interessi contrastanti delle parti coinvolte: da un lato
l’interesse della società e dei soci superstiti a mantenere inalterata la
compagine sociale, dall’altro l’interesse del socio a vedersi riconosciuta una
valida ed adeguata alternativa capace di controbilanciare il mancato acquisto
della partecipazione.
Novembre 2022
Orsola Scanferlato