JobsAct: tutele crescenti incostituzionali?
Come noto il c.d.
‘contratto a tutele crescenti’ introdotto dal ‘Jobs Act’ (d.lgs. 4.3.2015, n.
23) non rappresenta né una fattispecie contrattuale autonoma né una fattispecie
nuova, ma si caratterizza per nuove e diverse conseguenze sanzionatorie a
carico del datore di lavoro in caso di licenziamento ritenuto ingiustificato nei
rapporti di lavoro sorti dopo il 7 marzo 2015.
Per i rapporti di lavoro
sorti in data antecedente rimangono invece in vigore l’art. 18 l. 300/1970 e la
l. 92/2012 che lo ha modificato, mentre i giudizi aventi ad oggetto
l’accertamento dell’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo di
licenziamento si svolgono ancora secondo il rito speciale sommario noto come
‘Rito Fornero’, disciplinato dalla L. 92/2012.
La principale innovazione
introdotta dal Jobs Act stata quella di aver circoscritto la conseguenza
sanzionatoria rappresentata dalla reintegrazione del lavoratore nel posto di
lavoro (c.d. tutela reale) alle sole
ipotesi di licenziamento nullo, discriminatorio, o intimato in forma orale.
In tutti gli altri casi l’unica
sanzione prevista per l’azienda che avesse licenziato un dipendente senza giusta
causa o giustificato motivo era rappresentata da una indennità pari a due
mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per ogni anno di anzianità
aziendale maturato dal lavoratore, e comunque di un importo non inferiore a
quattro e non superiore nel massimo a ventiquattro mensilità (art. 3 d.lgs.
4.3.2015, n. 23).
Il recente decreto legge
87/2018, c.d. ‘Decreto Dignità’,
convertito con la legge 9 agosto 2018, n. 96 ha modificato la disciplina
previgente alzando il suddetto importo minimo da quattro mensilità a sei, e
l’ammontare massimo da ventiquattro a trentasei.
Con pronuncia di data 26.9.2018
la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il decreto
legislativo 4.3.2015, n. 23 nella parte in cui prevede che in ipotesi di
licenziamento ingiustificato spetti al lavoratore una indennità risarcitoria il
cui importo diminuisce o aumenta soltanto in relazione all’anzianità aziendale
acquisita dal lavoratore licenziato, senza che si possano prendere in
considerazione la gravità e le altre circostanze del singolo caso.
Le motivazioni della
pronuncia non sono ancora note, e occorrerà attenderne la pubblicazione, tuttavia
possono essere immaginate analizzando l’ordinanza del Tribunale di Roma di data
26 luglio 2017 che aveva rimesso all’esame della Corte Costituzionale la l. n. 183/2014
e gli artt. 2, 4 e 10 del D. Lgs. 23/2015, dando luogo alla pronuncia della
Consulta.
Il Giudice del Lavoro di
Roma evidenzia la forte discrepanza tra la disciplina applicata ai contratti
sorti dopo il 7 marzo 2015 e quelli sorti fino al giorno precedente.
Immaginando che ricorra il medesimo licenziamento privo di giusta causa o di
giustificato motivo, il lavoratore assunto fino al 6.3.2015 può ottenere la
tutela reintegratoria o quantomeno la condanna del datore di lavoro al
pagamento di una indennità risarcitoria tra le 12 e le 24 mensilità. Nel
secondo caso, a fronte di una situazione speculare, il lavoratore licenziato
illegittimamente ma che abbia maturato una anzianità aziendale inferiore ad un
anno riesce ad ottenere soltanto una indennità risarcitoria di sei mensilità
(erano quattro fino ad agosto 2018).
Vengono quindi posti
all’attenzione della Consulta i seguenti possibili motivi di
incostituzionalità:
-
violazione dell’art. 3 Costituzione (principio
di uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge): impedire al Giudice del Lavoro di modulare
l’indennità risarcitoria anche in base alla gravità della condotta del datore
di lavoro porterebbe a sanzionare in maniera disuguale situazioni simili ed
anche a punire in modo simile situazioni non omogenee;
-
violazione degli artt. 4 e 35 Costituzione
(diritto dei cittadini al lavoro): il risarcimento di sole poche mensilità
spettante ai lavoratori con una bassa anzianità aziendale, a fronte del
pregiudizio rappresentato dalla perdita del posto di lavoro, risulterebbe
contrastante con il principio costituzionale del diritto al lavoro;
-
violazione degli artt. 117 e 76
Costituzione (rispetto delle norme comunitarie, anche come criterio di delega del
potere legislativo al Governo): non risulterebbero rispettate alcune regolamentazioni
comunitarie o altre discipline sovranazionali.
E’ interessante rilevare
come il Tribunale precisi però di non ritenere in contrasto con la Carta
Costituzionale l’eliminazione o la limitazione del diritto alla reintegra nel
posto di lavoro, a condizione però che la tutela indennitaria sia adeguata al
caso specifico e che il Giudice non venga del tutto espropriato della
possibilità di decidere discrezionalmente la sanzione da comminare.
Probabile conseguenza
della pronuncia della Consulta è che il Giudice del Lavoro potrà decidere con maggiore
discrezionalità l’ammontare dell’indennità spettante al lavoratore licenziato
senza giusta causa o giustificato motivo, spaziando in una forbice tra le sei e
le trentasei mensilità.
I criteri per stabilire l’importo
spettante al lavoratore potrebbero essere gli stessi già individuati dalla
giurisprudenza e dalla dottrina nell’applicazione della tutela indennitaria
prevista dall’art. 18 l. 300/1970, come modificato dalla l. 92/2012: (i) anzianità
del lavoratore, (ii) numero dei dipendenti occupati, (iii) dimensioni
dell’attività economica, (iv) comportamento delle parti nel caso specifico
Rimane il fatto che la
materia sarà probabilmente oggetto di nuovi prossimi interventi da parte del
legislatore, anche per rendere maggiormente omogenea la disciplina riguardante
i rapporti di lavoro sorti dopo il 7 marzo 2015 e quella applicabile ai
rapporti sorti prima del 7.3.2015. Nel frattempo le imprese che intendessero
intimare al lavoratore il recesso dal rapporto lavorativo dovranno operare con
la massima cautela, considerato il rischio di conseguenze sanzionatorie più
difficili da prevedere e potenzialmente più severe di quanto avrebbe previsto
l’art. 3 d.lgs. 4.3.2015, ora dichiarato parzialmente incostituzionale.
Edoardo
Piccione




